Da #ODDIT14 a #SOD14

La lunga marcia dell'Open Data in Italia
di 28 Marzo 2014 0

Terracotta Soldiers
Oggi prende il via a Bologna la tre giorni del secondo raduno annuale di Spaghetti Open Data (trovi qui tutte le informazioni necessarie per informarsi e partecipare). Come lo scorso anno, la kermesse bolognese #SOD14 capita a ridosso dell’International Open Data Day, che nel 2013 per la prima volta è stato organizzato anche in Italia. Come lo scorso anno, anche in questa occasione, il cammino di #ODDIT14 è partito da Bologna con un primo incontro organizzativo in vista dell’appuntamento di febbraio all’Archivio Centrale dello Stato a Roma. Stessi luoghi, stesso entusiasmo, analoga la partecipazione convinta a sostenere l’organizzazione di due eventi collettivi, costruiti in rete, dedicati alle diverse declinazioni del paradigma Open Data.
Ma le similitudini tra l’edizione dello anno scorso e i due appuntamenti attuali, probabilmente, si esauriscono a questo punto. Diverso è il contesto in cui questi due appuntamenti si collocano, diverso quindi il clima e le aspettative dei partecipanti.

Alla fine del 2012 il panorama Open Data italiano si delineava a conclusione di due anni di continue novità. In rapida successione erano stati pubblicati i primi portali Open Data regionali, così come quelli di grandi e medie città lungo tutta la penisola; Camera dei deputati, Istat, MISE, Inps avevano iniziato a rendere disponibili parte del proprio ricco patrimonio informativo; si consolidavano le esperienze dei geoportali.

Ad un anno di distanza quella effervescenza di iniziative sembra essersi in parte affievolita. Certo non sono mancati in quest’ultimo anno nuovi importanti iscrizioni al circolo Open Data italiano, come quelle di Senato, Enel, Archivio centrale dello Stato; così come è continuato il trend di crescita quantitativo, registrato dal portale dati.gov: da 2.000 a 5.600 tra marzo 2012 e marzo 2013, per giungere fino ai 9.500 dataset  rilasciati in formato aperto alla data odierna.

Ma la semplice contabilità delle adesioni, per quanto prestigiose, convinte e qualificate, non sembra più in grado di testimoniare la vitalità del movimento e di sostenerne l’ulteriore crescita; il dato quantitativo in molti casi appare un indicatore parziale, se non addirittura fuorviante, della realtà che descrive. Non è un caso che, proprio quando anche in Italia viene lanciato il progetto di monitoraggio civico Census del grado di apertura delle amministrazioni cittadine, sia lo stesso portavoce italiano di OKNF, la fondazione che promuove a livello internazionale il progetto, a sottolineare la necessità di aprire una fase nuova, in grado di coniugare (mazzinianamente) Idea e Azione (Maurizio Napolitano, Non è roba da nerd).

Se ne è parlato a ODDIT14 e probabilmente se ne parlerà a SOD14.

all’iniziativa dei “produttori di dati” deve corrispondere un’analoga capacità di iniziativa dei “produttori di conoscenza” per passare dalla pratica dell’Open Data ad una cultura del dato

È tempo che il tema Open Data esca dalla ristretta e un po’ elitaria cerchia degli attivisti, per approdare sui tavoli di lavoro delle aziende e dei dipartimenti informatici delle amministrazioni. Appare sempre più evidente che all’iniziativa dei “produttori di dati” (innanzitutto la PA, anche per l’esigenza di rispondere a specifiche disposizioni di legge) deve corrispondere un’analoga capacità di iniziativa dei “produttori di conoscenza”, di una platea, cioè, diversificata e plurale di soggetti in grado di utilizzare quei dati per produrre interpretazioni, applicazioni, pratiche di riuso, occasioni di impresa.

Solo l’innesco di un circolo virtuoso tra i diversi soggetti dislocati lungo tutta la catena produttiva può sostenere la crescita del settore, contribuire a disegnare praticabili scenari di sviluppo, identificare campi di intervento, alimentare il processo di costruzione di un ecosistema favorevole. È solo nel confronto tra portatori di interessi e punti di vista diversi che può risiedere il principale caposaldo a tutela della qualità dei dati pubblicati. Il catalogo Open Data italiano registra oggi dataset  composti da singoli file pdf, doc, jpeg, html; una proliferazione per  anni di tabelle che riportano una singola serie di dati; dataset senza nomi o descrizioni. Alla disponibilità dei dati deve corrispondere, invece, una verifica puntuale da parte di chi quei dati riutilizza in contesti produttivi e in applicazioni commerciali, una domanda consapevole di dati riusabili, aggiornati tempestivamente, affidabili. E da questa spinta, che ancora stenta a manifestarsi, dall’interazione di fornitori e utilizzatori che possono determinarsi le condizioni perché si consolidi una “cultura del dato” e non solo una “pratica dell’Open Data”.

Questo processo di maturazione passa anche dalle declinazioni che prevarranno su tre aspetti.

La trasparenza non bastaTerracotta Soldier

L’accento posto sulle esigenze di trasparenza della pubblica amministrazione e sul ruolo che a questo fine svolgono gli Open Data può essere fonte di alcuni fraintendimenti, e a volte di sovrapposizioni con concetti prossimi come quello di OpenGovernment.  In realtà la disponibilità di informazioni liberate rappresenta un requisito necessario a perseguire questi obiettivi, ma è una condizione assolutamente non sufficiente. La granularità e la quantità delle informazioni non garantiscono una facile leggibilità di questi dati (raw data), che possano favorire le esigenze di trasparenza. Ma la leggibilità non può essere raggiunta attraverso una semplificazione operata dal fornitore della complessità in singole unità informative human-readable: qualsiasi “vista” generata dai dati liberati rappresenta solo una specifica lettura e una riduzione del loro potenziale di conoscenza. Per perseguire quei necessari obiettivi di trasparenza della PA servono strumenti (indipendenti) in grado di leggere e navigare quei dati; e servono mediatori in grado di proporre nuove letture, interpretazioni, applicazioni, che scompongano e riaggreghino il patrimonio informativo disponibile.

Il primo utilizzatore dei dati liberati può essere la stessa amministrazione che quelle informazioni ha prodotto e raccolto. Valgono all’interno di una specifica organizzazione gli stessi principi che operano nella comunicazione tra questa e l’esterno. Qualsiasi interconnessione costruita attraverso un colloquio tra sistemi finisce per privilegiare una specifica vista o lettura, limitandone le potenzialità di riutilizzo e subordinandole a interventi spesso gravosi di adeguamento tecnico su entrambi i lati (sistemi produttori e sistemi di riutilizzo). La libera circolazione delle informazioni all’interno di strutture complesse favorisce invece la moltiplicazione delle occasioni di riuso, migliorando allo stesso tempo l’efficacia informativa e l’efficienza dei processi di comunicazione.

L’omologazione non è la strada per l’interoperabilità

La possibilità di fare interagire dati liberi di provenienza diversa dipende da requisiti tecnologici (relativi ai formati e ai metodi di accesso) e dalla effettiva leggibilità delle informazioni rese disponibili. Come ha ben mostrato la discussione sviluppatasi nel ricco panel di LOD2014 un’adozione solo parziale degli standard W3C del Semantic Web può opporre ostacoli insormontabili alla comunicazione tra repository Linked Data. Tanto più faticoso e parziale rischia di diventare il riuso dei dati in presenza di strutture informative e descrittive non comparabili e spesso poco o nulla documentate.

Questa esigenza di interoperabilità non deve però tramutarsi in un coercitivo processo di normazione minuta di modelli, ai quali tutti i produttori di informazioni debbano uniformarsi. Le ragioni dello sviluppo del Web nei suoi primi venticinque anni di vita risiedono innanzitutto nelle sue caratteristiche originarie di essere una piattaforma “open, egalitarian and decentralised”. Lo ha sottolineato Tim Berners-Lee nell’articolo pubblicato sul numero di marzo dell’edizione inglese di Wired (ne abbiamo già parlato in un post precedente), auspicando per gli anni a venire un rafforzamento del processo di re-decentralisation.

L’autonomia dei produttori di dati, anche all’interno della stessa PA, nel definire strategie e obiettivi nella gestione dei propri patrimoni informativi è un presidio irrinunciabile alla libera espressione e diffusione di innovazioni tecnologiche, economiche e sociali. Gli strumenti e i metodi per coniugare diversità e interoperabilità rappresentano un’opportunità per valorizzare giacimenti plurali e non riducibili ad unità.

Alla ricerca di strategie aziendali sostenibili

Il consolidamento di un ecosistema Open Data efficiente è subordinato all’attivazione di un processo produttivo in grado di autoalimentarsi e, in tal modo, sostenere una pluralità di operatori commerciali. Per realizzare queste condizioni è necessario identificare ambiti di intervento, modelli di business, bisogni concreti che possano essere soddisfatti da strumenti che utilizzino le informazioni liberate. Sul blog dell’Open Data Institute Stuart Coleman, direttore commerciale dell’istituto, prevede che il 2014 segnerà l’inizio dell’era dell’open data business, identificando una serie di settori di intervento, a partire da quello assicurativo: Open data procurement, Open data product data, Open data reputation.

Queste opportunità non sono però confinate al solo ambito finanziario, che è comunque in grado per le risorse che può mobilitare di fungere da volano decisivo. Penso ad esempio, su un piano del tutto differente, al settore dei beni culturali che, per le sue caratteristiche intrinseche di interdisciplinarietà, potrebbe ricavare da una reale condivisione delle informazioni significativi benefici di efficienza nei processi produttivi e di efficacia nella diffusione della conoscenza: liste di autorità condivise, capacità di recuperare notizie specialistiche da contesti “autorevoli”, creazione di nuovi “prodotti” culturali dall’integrazione di fonti plurali, apertura di nuovi mercati digitali. Liberare i dati per farne cosa? L’appello che deve essere rivolto al mondo dei beni culturali per una piena apertura dei propri archivi, per essere realmente credibile ed efficace, deve sapersi sposare con una forte capacità progettuale, in grado di offrire soluzioni efficaci e praticabili, alternative e strumenti operativi.

Le immagini dell’esercito di terracotta che illustrano questo articolo sono tratte da Wikimedia Commons