I presidenti della Repubblica

di 22 Aprile 2013 0

Il 20 aprile, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, un presidente della repubblica è stato rieletto. Giorgio Napolitano sarà quindi il tredicesimo presidente, contando anche Enrico De Nicola, che fu capo dello Stato provvisorio dal 1946 al 1948, durante i lavori dell’Assemblea Costituente che doveva definire il nuovo assetto istituzionale della nazione.

Eletto il 28 giugno 1946 al primo scrutinio con 396 voti su 504, Enrico De Nicola restò in carica fino al 12 maggio 1948.

Nel suo discorso di insediamento, disponibile sul sito del Quirinale, il presidente reggente mise l’accento soprattutto sull’opportunità di restare uniti per superare la difficile fase che si era aperta dopo la fine della guerra: “Per l’Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All’opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e abnegazione, tutte le energie vive della Nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe”.

Il primo vero Presidente della Repubblica venne eletto l’11 maggio del 1948. Luigi Einaudi ottenne al quarto scrutinio, il primo per il quale è sufficiente la maggioranza semplice e non quella dei due terzi, con 518 voti su 872. L’Italia usciva distrutta dalla guerra mondiale e si era pensato che un uomo con le qualità di Einaudi, che sapesse cosa fare e nel contempo tranquillizzare l’opinione pubblica, potesse essere la persona più adatta a ricoprire quel ruolo. Insediandosi Einaudi accolse la sua elezione con un forte richiamo alla centralità del Parlamento: “Nelle vostre discussioni, signori del Parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle istituzioni che noi ci siamo liberamente date; e se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi è questa: di non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto od in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi”.

Giovanni Gronchi fu eletto Presidente della Repubblica esattamente sette anni dopo il suo predecessore e come lui alla quarta votazione. Ottenne 658 voti su 833. Anche lui insediandosi pose l’accento sulla collaborazione necessaria tra le varie forze politiche, “Una collaborazione che non sia rinunzia per alcuno o attenuazione dei diritti legittimi, bensì accettazione di un limite atto a garantire il reciproco rispetto di questi”.

Come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da Presidente della Repubblica. Avevo già nello scorso dicembre pubblicamente dichiarato di condividere l’autorevole convinzione che la non rielezione, al termine del settennato, è “l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica”

Per eleggere il quarto presidente della Repubblica, furono necessari nove scrutini. Alla fine al Quirinale salì Antonio Segni, sardo, del 1891, che ottenne 443 su 842. Segni fu il primo presidente a non terminare il mandato: dovette rassegnare le dimissioni due anni dopo a per le conseguenze di un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito. Nel suo discorso di insediamento una parte importante l’ebbe l’Europa: “L’Italia ha dato e, a mio avviso, continuerà a dare la sua opera efficace al proseguimento di una unità europea effettiva, sviluppando i germi essenziali di una comunità politica che sono contenuti nei trattati di Roma. Questa unità fondamentale dell’Europa fu intuizione e aspirazione di uno dei più grandi spiriti del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini; in tempi più recenti dettero inizio a tradurla in realtà due grandi scomparsi, Alcide De Gasperi e Carlo Sforza”.

A succedergli, nel dicembre, fu Giuseppe Saragat. Intervenendo alle Camere per il giuramento anche Saragat, in un passo quanto mai attuale, mise l’accento sulla centralità del Parlamento: “La salvaguardia della funzione parlamentare è la salvaguardia della democrazia e la condizione prima per lo sviluppo della giustizia sociale. Nella Repubblica democratica la libertà politica e la giustizia sociale trovano il terreno su cui consolidarsi e progredire”.

 

23 scrutini furono necessari per eleggere Giovanni Leone. Presentandosi alle Camere il nuovo presidente, difronte a un paese smarrito, pose l’accento sull’importanza della Costituzione: “È nella Costituzione che noi italiani dobbiamo tutti riconoscerci. La Costituzione, nata dalle rovine del paese dopo una guerra che, pur non condivisa, testimoniò il senso del dovere dei cittadini, miltari e civili, il cui sacrificio e il cui olocausto devono essere qui ricordati”.

 

Leone si dimise sei mesi prima dello scadere del suo mandato, all’indomani dell’omicidio di Aldo Moro, dopo essere stato tirato in ballo nello scandalo Lockheed. Gli successe Sandro Pertini. Il suo discorso di insediamento segnò sin dall’inizio una discontinuità di stile. Pertini entrò subito in medias res. Uno dei passi più belli riguarda senza dubbio il concetto di libertà: “Certo noi abbiamo sempre considerato la libertà un bene prezioso, inalienabile. Tutta la nostra giovinezza abbiamo gettato nella lotta, senza badare a rinunce per riconquistare la libertà perduta. Ma se a me, socialista da sempre, offrissero la più radicale delle riforme sociali a prezzo della libertà, io la rifiuterei, perché la libertà non può mai essere barattata. Tuttavia essa diviene una fragile conquista e sarà pienamente goduta solo da una minoranza, se non riceverà il suo contenuto naturale che è la giustizia sociale”.

 

Il suo successore fu Francesco Cossiga, con i suoi 57 anni il più giovane tra i presidenti italiani. Presentandosi alle Camere riunite il nuovo presidente espresse subito quale sarebbe stato il suo punto di riferimento: “La misura della gente comune, alla quale è andato il mio primo pensiero dopo l’elezione a Presidente della repubblica, costituirà il punto di riferimento più sicuro per saldare, sia nella nostra coscienza civile che nel nostro agire, il passato al futuro. La gente comune, che lavora, gioisce e soffre, non chiede utopie, non si riconosce nella disperazione, nell’orgoglio e nell’astuzia, ma semmai nella libertà di amare i propri sogni razionali, nel duro incontro con la propria perfettibile vita quotidiana, nel volere un ottavo giorno in cui l’uomo si misuri con la storia per costruire il suo concreto avvenire”.

 

Per eleggere il suo successore, Oscar Luigi Scalfaro, furono necessari sedici scrutini e l’attentato al giudice Giovanni Falcone. Nel suo discorso di insediamento, all’indomani di tangentopoli, non poteva mancare un riferimento alla questione morale: “E vi è la questione morale. Troppe volte, chi fece appelli morali fu accusato di moralismo. Ma una politica che non risponda a norme di umana morale, certo non è più politica, poiché non può essere servizio alla polis, alla comunità. L’abuso del denaro pubblico è fatto gravissimo, che froda e deruba il cittadino fedele contribuente e infrange duramente la fiducia dei cittadini: nessun male maggiore, nessun maggior pericolo, per la democrazia, che l’intreccio torbido tra politica e affari!”.

Carlo Azelio Ciampi fu eletto al primo scrutinio nel maggio del 1999 con 707 voti su 990. Nel suo discorso alle Camere riunite emerse subito quella che sarebbe stata una costante del suo settennato: l’importanza della patria e la difesa dell’unità nazionale: “Avverto il dovere di riaffermare questa esigenza nel giorno solenne in cui rivivono le memorie nazionali e patriottiche, il ricordo degli uomini che hanno fatto la nostra Italia attraverso lotte civili e militari: testimonianze tutte della continuità della nazione. Quella continuità che ha saputo superare e vincere anche la più grave frattura della nostra storia, perché mai è venuto meno, dal Risorgimento a oggi, il senso profondo della patria, che ha poi consentito, nella Repubblica democratica, la piena pacificazione tra tutti gli italiani“.

 

Giorgio Napolitano fu eletto la prima volta al quarto scrutinio con 543 voti su 990 a 80 anni appena compiuti. E’ stato il primo ex comunista ad arrivare alla più alta carica dello stato. Insediandosi nel 2006 egli pose l’accento sui rischi di una contrapposizione troppo spinta tra le forze politiche: “Ma in tali condizioni più chiara appare l’esigenza di una seria riflessione sul modo di intendere e coltivare in un sistema politico bipolare i rapporti tra maggioranza e opposizione. Non si tratta di tornare indietro rispetto all’evoluzione che la democrazia italiana ha conosciuto grazie allo stimolo e al contributo di forze di diverso orientamento. Ma il fatto che si sia instaurato un clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità, a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno comune, deve considerarsi segno di un’ancora insufficiente maturazione nel nostro paese del modello di rapporti politici e istituzionali già consolidatosi nelle altre democrazie occidentali”.

Gli stessi richiami alle esigenze di intesa, collaborazione e confronto tra le forze politiche sono tornati nel discorso del 22 aprile.