Nelle scuole mi capita di parlare di come e perché ci adoperiamo per salvaguardare la Memoria e di come la Storia incrocia le vite delle persone modificandone il percorso.
Tutti noi possiamo essere testimoni di eventi di cui, mano a mano che le persone vengono a mancare, si perde traccia. Questo accade per tradizioni antiche, per eventi locali e per questa ragione i giorni del Covid ci appaiono ancor più terribili. Stanno colpendo, con terribile precisione, la parte più fragile dell’Umanità, quella che ne detiene il più grande patrimonio di ricordi che, irrimediabilmente, si stanno perdendo.
Il 23 novembre 1980 ero diciottenne, avevo lasciato il liceo a luglio ed era cominciata una fase nuova della mia vita con le lezioni all’università, nuovi amici e il senso di autonomia accresciuto dalla patente e da una vecchia macchina, acquistata in società con mio fratello. Come tutti i ragazzi a quell’età, trascorrevo le serate con gli amici, esattamente come quella sera.
A Salerno, dove abitavo, l’ansia fu tremenda durante quei secondi, sembrava non passassero mai e nessuno sapeva cosa fare, correvamo a caso alla ricerca di un inesistente luogo sicuro. Per fortuna in città i danni furono contenuti rispetto al bilancio globale di quella tragedia, anche se tutto il centro antico, il cuore della città, è rimasto in gran parte inagibile per mesi, in tanti casi per anni, costringendo centinaia di persone a vivere in alberghi e container.
Dopo la prima notte in emergenza, trascorsi il giorno seguente con fratelli e cugini a predisporre un ricovero sostenibile per tutta la famiglia. Mio padre, ingegnere, sconsigliò a tutta la famiglia di tornare a casa prima che fossero state fatte verifiche adeguate e in attesa di capire cosa sarebbe successo. In effetti quella stessa sera c’era stata subito una seconda scossa e non sapevamo cosa poteva ancora accadere.
Quasi tutti noi, la mia famiglia, gli zii e il nonno abitavamo in edifici alti o antichi, per cui papà scelse di allestire una sorta di “campo familiare”. Qualche anno prima aveva costruito una casa per le vacanze per una zia, si trovava in località Magazzeno, nella zona costiera della Piana del Sele, a pochi chilometri da Salerno. Era la costruzione più recente, alta solo un piano e in una zona dal fondo sabbioso, nella sua valutazione era il luogo più adeguato dove attendere l’evoluzione della situazione.
Montammo alcuni letti a castello per i meno giovani mentre i ragazzi avrebbero dormito nelle auto parcheggiate nel cortile. Non ricordo quanti giorni trascorse lì la mia famiglia, ma io e mio fratello decidemmo di andare nell’area che allora era stata definita del “cratere”, da cui giungevano notizie di enorme emergenza.
Non ricordo di chi fu l’idea. Troverete questo “non ricordo” ricorrente nella mia narrazione e non so spiegarmene a pieno la ragione. C’entra, ahimé è ovvio, l’età e il tempo trascorso, ma in realtà non sono mai stato in grado di fornire dettagli ulteriori.
Ho riflettuto spesso su questo. Non ho un ricordo continuativo di quei giorni né di quella esperienza, ma piuttosto dei flash, talmente vivi da renderli ancora attuali, come se il tempo non fosse passato. Non conosco la ragione di tutto ciò, non so se dipenda dalla concentrazione del momento che mi ha impedito di ricostruire una narrazione omogenea o se, come penso, quella situazione così irreale e tragica abbia determinato, nel mio subconscio, una sorta di desiderio di rimozione a cui, tenacemente, resistono solo gli episodi più singolari o traumatici.
Credo che l’idea di andare fosse venuta a un mio ex compagno di scuola, infatti lo strano equipaggio che si era formato era costituito da tre amici del liceo, mio fratello, di sei anni più grande, e me. Ci recammo nel tardo pomeriggio nella piazza antistante la prefettura dove c’erano anche gli uffici della Croce Rossa e lì ci munirono di un lasciapassare, che non ricordo fu mai esibito ad alcuno. Sapendo che eravamo muniti di un’auto capiente ci riempirono di generi alimentari e disinfettanti e (credo) ci indicarono la meta verso cui dirigerci.
L’auto era un’improbabile station wagon rosso amaranto, della Peugeot, con tre file di posti, in un periodo in cui la moda delle auto di quel tipo non era ancora esplosa. Aveva il cambio al volante, si riconosceva dal pesante odore di gasolio che emanava quando veniva accesa (e non credo ne esistessero molte in Italia) l’avevamo comprata con i soldi guadagnati nella stagione estiva e ne eravamo molto orgogliosi, sebbene sembrasse uscita da un film algerino degli anni ’60.
In piazza Amendola ci avvicinò un giovane frate che veniva dalla Sicilia, viveva lì ma era originario del nord, aveva fatto il volontario in Friuli qualche anno prima e, con i suo sandali, non aveva esitato a partire subito per venire a dare una mano.
Poche ore dopo eravamo in viaggio verso l’Irpinia, ma non so descrivervi ciò che vidi per strada, era già notte ed eravamo tutti molto preoccupati. Ricordo bene quando arrivammo, nel buio della notte una luce sulla strada ci indirizzò verso la nostra destinazione, con sorpresa apprendemmo che lì, a Senerchia, non era giunto ancora nessuno. Senerchia è un piccolo paese al confine con la provincia di Salerno, la popolazione si era autorganizzata in un accampamento ma l’esercito giunse solo al mattino seguente, molte ore dopo il sisma.
Scaricammo tutto il materiale, consegnandolo a qualche responsabile, e ci trovammo un angolo di strada in cui parcheggiare e riposare. La preoccupazione aveva lasciato lo spazio a un momento di serenità e, disposti in due per fila, chiacchierammo in attesa del sonno.
La serata fu monopolizzata da una surreale quanto amichevole discussione sulla religione e sulla chiesa che vide protagonisti il frate e in particolare Carmine, un mio ex-compagno di classe. In quegli anni eravamo tutti molto presi dall’impegno politico e sembrava di assistere a una scena tratta dai film di Peppone e don Camillo. Dalle loro parole si capiva che c’era reciproco rispetto per l’essere lì, ma persisteva molta difficoltà nel comprendere i rispettivi punti di partenza. Questo in fondo poco importava, erano entrambi lì per aiutare, sacrificando il proprio tempo e la propria normalità.
La parte difficile cominciò al mattino. Il panorama che si prospettò davanti era agghiacciante: a parte alcune, rare, eccezioni il paese era solo un enorme cumulo di pietre senza soluzione di continuità. Le case del centro storico, costruite di pietra o di tufo credo, si erano come disgregate lasciando il posto a una pietraia, in cui era impossibile riconoscere le strade dalle abitazioni.
Erano ancora in piedi alcune case, probabilmente più nuove e periferiche, la chiesa e lo spiazzo antistante. C’era molta gente, abitanti di Senerchia ma anche giovani provenienti da fuori, militari e alcuni vigili del fuoco.
A questi ultimi spettava il compito di intervenire nelle situazioni più difficili o quando c’era la possibilità che qualcuno fosse ancora in vita. La pietraia così brulicava di persone che si davano da fare. Quando da una buca fu udita una voce e una richiesta d’aiuto si fece subito silenzio, accorsero i vigili del fuoco, l’area immediatamente vicina fu sgomberata ma oltre quella i presenti cercavano di continuare a lavorare senza far rumore, per agevolare il lavoro dei soccorritori e al tempo stesso per non fermare quella macchina umana che spostava pietre.
Non riuscivo a vedere le operazioni di salvataggio ma ero abbastanza vicino per sentire la voce del vigile del fuoco che teneva viva l’attenzione del superstite e, con questa, la sua speranza di uscire. Se non ricordo male era una donna e quei ragazzi la tirarono fuori. Quando la estrassero e la barella attraversò la pietraia scoppiò un lungo applauso che coinvolse anche chi non era vicino, tutti avevano capito cosa l’aveva determinato e ne gioirono. Molti di noi, me compreso, piangemmo, felici che il nostro lavoro non servisse solo a restituire salme ai propri familiari ma anche tenere accesa la speranza.
Anche oggi, mentre scrivo queste parole, mi commuove il ricordo di quel momento e di ciò che molti hanno vissuto: il terrore, il dolore, la perdita. Io ero abbastanza vicino da poter capire e, al tempo stesso, abbastanza lontano per esserne rimasto fuori. Un fortunato, per questione di pochi chilometri.
Mentre stavamo lavorando un ragazzo ci chiese di dargli una mano: aveva lasciato il paese tempo addietro ma era rientrato perché i suoi erano rimasti li. Da quando era giunto non aveva ancora incontrato nessuno di loro e non ne aveva notizie, l’unica cosa che sapeva era che, all’incirca sotto i nostri piedi, c’era un tempo la casa dei suoi nonni.
Con altre persone ci organizzammo per liberare l’area cercando di spostare le macerie più lontano. Il ragazzo scavava senza sosta, con grande dignità, e la sua determinazione fece si che nessuno di noi si fermasse. Lavoravamo con attenzione per paura dei crolli e per non danneggiare chi fosse rimasto sotto, sebbene quel ragazzo fosse ben consapevole di cosa lo attendesse. Stavamo scavando nel punto che ci aveva indicato quando ci accorgemmo che una superficie, appena apparsa, sferica e impolverata non era una pietra, con le mani la ripulimmo per avere la certezza che fosse qualcuno e non qualcosa. Era la testa senza capelli del nonno.
Cominciammo a scavare intorno, con delicatezza, con rispetto di quel corpo senza vita, piano piano liberammo tutta la testa e poi le spalle. Quando ci accorgemmo che il terreno sotto di noi era diventato più instabile, riflettemmo con tutti i presenti sul fatto che, continuando a scavare, quel corpo avrebbe potuto scivolare in basso e discutemmo sul da farsi. Il nipote mi chiese di tenere il nonno sotto le ascelle mentre loro continuavano a scavare, io, confesso, ebbi un attimo di sbandamento. Era la prima volta che avevo a che fare con un cadavere, prima di allora avevo visto solo mio nonno e mio zio ma ben ricomposti nel proprio letto.
Avevo già scavato intorno a quella povera salma, ma ora tenerla in mano mi sembrava differente e difficile, mi ricordava mio nonno negli ultimi anni, piccolino, esile e smagrito, calvo. Leggevo però, negli occhi di quel ragazzo, la richiesta d’aiuto e la necessità di essere lucido per raggiungere il suo obiettivo e così allargai le gambe, per fare perno su due punti che apparivano più solidi, e lo afferrai da dietro. Gli altri continuarono a scavare con attenzione e la situazione appariva sempre meno stabile, cominciavo a sentire quel corpo muoversi, segno che lo stavamo liberando ma anche che sotto di noi probabilmente c’era il vuoto.
Infine lo liberammo, era in posizione rannicchiata ma sospeso in verticale a metà nel vuoto, con le mani raccolte verso il petto, mi ricordò i calchi di Pompei e la polvere grigia che lo ricopriva accentuava questa somiglianza. Come tanti anziani dei nostri paesini indossava una giacca di velluto e pantaloni troppo grandi per quelle gambe rese così sottili dalla vecchiaia, lo adagiammo su una lettiga militare e, dopo una veloce pulizia, accompagnai il nipote nel punto dove raccoglievano le salme. Al ciglio di una strada giacevano diversi corpi, la maggior parte direttamente sulla terra gelida e coperti a malapena da un lenzuolo bianco.
Quesi sudari, adagiati in terra, sono una delle immagini più terribilmente chiare che ricordo di quei giorni, ma ancora non sapevo che avrei dovuto ancora assistere alla scena più angosciante. Nei pressi infatti c’era una casa rimasta in piedi, ma così devastata da ampie ferite su un fianco che evidentemente era stato deciso di abbatterne le parti più pericolanti.
Stavo passando da li per tornare al lavoro quando il bulldozer, con un colpo, provocò la caduta immediata dell’intera parete, a conferma che la scelta di abbatterla era più che giustificata. L’abitazione apparve allora alla vista di tutti, come quelle case delle bambole nelle quali dal davanti riesci a vederle in sezione: i solai dei vari piani, i quadri appesi alle pareti e alcuni mobili.
Quello che però il mezzo meccanico disvelò fu però anche il corpo di una donna al primo piano.
Parte del solaio era crollato e il corpo era per metà nel vuoto, era con il figlio, che evidentemente aveva cercato di proteggere con il proprio corpo infilandosi, forse, sotto il letto. Proprio il letto, ricoperto di macerie, le bloccava le gambe e il bacino impedendole di cadere nel vuoto. I corpi così erano sospesi e inarcati, una ancor più tragica Pietà in cui la madre segue il destino del figlio. Sfuggii alla visione di quello strazio tornando a lavorare.
Non conservo altro ricordo dei miei compagni di viaggio se non quello della prima notte trascorsa in auto, quasi che quella esperienza l’avessi vissuta da solo, con persone mai conosciute prima.
Dopo due o tre giorni ritornammo a casa, forse perché decisero di ridurre il numero di persone presenti nelle aree, avvicendando i primi arrivati o se perché mio fratello si era, nel frattempo, infortunato a una mano.
Dopo qualche giorno sarebbe cominciata un’altra avventura legata al sisma, mio padre aveva un albergo aperto solo d’estate e da lì a poco sarebbe stato utilizzato per ospitare i senza tetto, ma questa è un’altra storia.
A Senerchia non sono più tornato. Questa estate mio fratello è andato a rivedere quei luoghi e mi ha mostrato le foto scattate nel viaggio. Per fortuna apparivano molto diversi da quelli vissuti nella nostra breve permanenza e io non ci ho rivisto nulla di quella mia esperienza.
Le foto che illustrano questo testo sono state scattate a Senerchia a settembre di quest’anno.