Sei giorni fitti di proiezioni, incontri, performance, a Roma, tra il quartiere di Trastevere e la collina del Gianicolo, lo scorso mese (3-8 maggio) hanno scandito i ritmi di uno degli eventi più originali e innovativi del panorama capitolino, certamente gravido di futuro. Si tratta di UnArchive Found Footage Fest il festival ideato e promosso dall’AAMOD, l’Archivio audiovisivo del Movimento Operaio e democratico guidato da Vincenzo Vita, in collaborazione con Archivio Luce e con il sostegno del MiC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo e di altre istituzioni pubbliche e private che non si sono fatte sfuggire l’occasione di investire in un progetto di qualità.
Protagonisti gli archivi filmici, le poetiche del riuso, le pratiche di conservazione e pubblicazione dei materiali di repertorio. Definiamo l’oggetto prima di tutto, dando la parola a Marco Bertozzi che, con Alina Marazzi, ha diretto il festival: “Letteralmente found footage significa «metraggio trovato», dove metraggio sta per pellicola cinematografica, o parte di essa, e «trovato» indica una vasta gamma di occasioni di recupero, da film emersi per caso – in mercatini delle pulci, raccolte private, inesplorati fondi cinetecari – a film volutamente cercati per essere manipolati. Da un lato” – prosegue Bertozzi – “immagini provenienti da disparate pratiche audiovisive – cinegiornali governativi, vedute del muto, film d’animazione, sexi cinema, opere hollywoodiane, film sperimentali, pubblicità televisive, documentari industriali… –, dall’altro i modi precipui con cui queste immagini sono rivisitate, sovrapposte, stratificate”.
Non si è dunque trattato di un festival del cinema documentario se per cinema documentario si intende il consolidato uso illustrativo del materiale di repertorio: assecondando anche lo sguardo delle generazioni più giovani – anch’esse protagoniste del festival nelle produzioni cinematografiche, nelle sale di proiezione, nelle classi e nei workshop sul riuso creativo dei film d’archivio – UnArchive Fest ha fatto emergere questa disposizione sperimentale ri-creatrice delle immagini filmiche, che affonda le radici nel passato e che sembra interpretare al meglio la vocazione contemporanea, nazionale ed internazionale, all’uso “espanso” dei materiali d’archivio da parte di cineasti, videoartisti, animatori,performer, archivisti e curatori d’arte .
AAMOD: le carte in regola
L’AAMOD ha le carte in regola per raccontare questo passaggio narrativo. Prima di tutto è un protagonista e un pioniere nelle politiche di conservazione, trattamento, valorizzazione, condivisione e apertura all’esterno del materiale d’archivio, perseguite con cura e costanza nel corso degli anni e culminate nella pubblicazione di una banca dati a disposizione di tutti gli utenti, nella digitalizzazione del patrimonio, nei convegni e negli appelli all’apertura rivolti – dall’instancabile voce dell’archivista Letizia Cortini, allieva di Ansano Giannarelli – a tutte le cineteche, territoriali e nazionali.
Così sono nati i corsi di formazione del Premio Zavattini, istituto ben 7 anni fa, con la direzione di Antonio Medici per la produzione di corti basati sul riuso del materiale d’archivio; così è nata la residenza Suoni e Visioni per giovani artisti, dedicata al riuso del cinema d’archivio e alla sperimentazione musicale.
“Unarchive” (mutuato dal linguaggio informatico, letteralmente “disarchiviare”) rappresenta il comun denominatore di tutte queste iniziative promosse nel corso degli anni dalla Fondazione AAMOD in campo formativo e produttivo da un gruppo di lavoro coordinato da Luca Ricciardi (qui l’intervista che chiarisce il contesto di nascita del Festival) e Aurora Palandrani.
Questo evento si inserisce nel filone internazionale della sperimentazione creativa dei materiali d’archivio che, attraverso giustapposizioni e ri-combinazioni, e “riappropriandosi” delle fonti audiovisive produce nuovi significati – come il Festival of (In)appropriation, nato nel 2009, diretto da Jaimie Baron – o come Muta, in Sudamerica, che esplicita il suo programma di lettura critica della realtà (“Ante la hegemonía de la imagen, sucumbir o dudar de ellas. Elegimos lo segundo. Poner en cuestión aquello que representa y buscar más allá de su superficie. Creemos en las múltiples posibilidades de interpretación de las imágenes en movimiento y el poder que tiene la apropiación de las mismas para demostrarlo”. Muta prevede anche attività formative e laboratori per la sperimentazione materica della emulsione della pellicola”)…
Ma torniamo a UnArchive Found Footage Fest, esperienza unica in Italia. Ci soffermiamo sulla vincitrice selezionata dalla giuria internazionale, composta da Laurence McFalls, Ilaria Fraioli, Rä di Martino: è Bianca Stigter, regista olandese, storica di formazione, che con il suo Three Minutes: A Lengthening ha espanso tre minuti di film “fino in fondo alla sua potenzialità espressiva e di svelamento”, e grazie a questo metodo d’indagine è riuscita “a rompere il confine tra microstoria e macrostoria, facendole camminare insieme” (motivazione della giuria).
Three minutes: frammenti di vita
4 agosto 1938, riprese amatoriali di uno shtel in Polonia. Scene di strada, buio, gente riunita in una casa, persone in strada, soprattutto bambini e ragazzi che nel quartiere ebraico, sorridono per conquistare un posto davanti alla cinepresa. Qualcuno fa una linguaccia, una giovane donna è contrariata dalla presenza della macchina, una signora se ne mostra divertita. Un cartello sopra un negozio indica una drogheria, “Spozywczy”. Tre minuti di home movie.
Trovato in un armadio di famiglia in Florida da Glenn Kurtz il film era stato girato dal nonno David in occasione di un viaggio turistico in Europa; nei fotogrammi faceva capolino anche la fiorente cittadina di Nasielsk, in Polonia, 50 chilometri da Varsavia, ritratta nel 1938 poco prima della distruzione della comunità: di circa 3000 ebrei solo 100 sopravvissero alle deportazioni. Kurtz fece restaurare il film dal Museo dell’Olocausto ( US Holocaust Memorial Museum) che pubblicò le riprese nel sito online. Una giovane donna riconobbe suo nonno come uno dei ragazzi e il filo cominciò a sbrogliarsi: Moszek Tuchendler era di Nasielsk e fu possibile localizzare il film. Glenn Kurtz si mise in viaggio, incontrò il testimone e venne così’ viene alla luce la storia perduta del villaggio. Dal racconto di questa ricostruzione nacque un libro all’origine del film, Three Minutes in Poland pubblicato nel 2014. Souvenir di viaggio il footage di Kurtz congelava una città sull’orlo della catastrofe.
My first idea was just to prolong the experience of seeing these people… When you see it, you want to scream to these people run away, go, go, go
Nel film di Stigter i tre minuti si allungano, diventano 70. ” “My first idea was just to prolong the experience of seeing these people (…) For me” – ha raccontato la regista – “it was very clear, especially with the children, that they wanted to be seen. They really look at you; they try to stay in the camera’s frame. When you see it, you want to scream to these people run away, go, go, go (…) We know what happens and they obviously don’t know what starts to happen, just a year later. That puts a tremendous pressure on those images. It is inescapable.”
Three Minutes non esce mai dal footage, osserva il New York Times. Nessuno vede la città di Nasielsk, gli intervistati. Stigter rintraccia, ingrandisce, ferma, riavvolge; si sofferma sui ciottoli di una piazza, sui tipi di berretti indossati dai ragazzi, sui bottoni di giacche e camicie, realizzati in una vicina fabbrica posseduta da ebrei.
“Abbiamo dovuto lavorare come archeologi per estrarre quante più informazioni possibili da questo film”, ha detto Stigter. Chi lavora o ha lavorato in un archivio audiovisivo catalogando e descrivendo repertori, documentari, cinegiornali, avverte un sentimento di grande familiarità con le indagini svolte e raccontate nel film dalla regista e dal gruppo di ricerca di Tre minuti.
Leslie Swift, Chief del “Film, Oral History and Recorded Sound” all’USHMM, ha affermato che il “girato” di David Kurtz è uno dei “film più richiesti” ma il più delle volte viene utilizzato dai registi di documentari come film d’archivio o immagini di sfondo per indicare la vita ebraica in Polonia prima della guerra “in modo generico”.
Ciò che fanno il libro di Kurtz e il documentario di Stigter, conclude il NYT, è esplorare il materiale stesso per rispondere alla domanda “Cosa sto vedendo?” più e più volte. Identificando persone e dettagli della vita di questa comunità riescono a restituire umanità e individualità.
La pagina Facebook racconta il Festival, su You Tube ci sono alcuni incontri dell’evento.
Il video in alto è di Milena Fiore, montatrice AAMOD.
Le informazioni sono tratte dagli incontri del Festival, le ricerche su archivi e giornali. Tra le fonti online Il manifesto/Alias del 29 aprile, Unarchive found footage, cinema nuovo dai resti del passato di Marco Bertozzi e Alina Marazzi; il dettagliato articolo su The New York Times del 3 gennaio 2022, A Film Captures Jewish Life in a Polish Town Before the Nazis Arrived; l’intervista a David Kurtz e Bianca Stigter su ABC news del 28 gennaio 2022.