La sfida digitale

di 31 Dicembre 2020 0
1969 New Year's Eve 1970
Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum
fonte: Smithsonian (https://www.si.edu/spotlight/new-year)

Le conseguenze dell’emergenza pandemica causata dal Covid19 e le misure di contenimento del contagio adottate in quasi tutti gli angoli del pianeta hanno fortemente colpito il settore della produzione e comunicazione culturale. L’interruzione degli spettacoli dal vivo, in teatri, arene, sale di concerto, e la chiusura di scuole, università, musei, biblioteche, sale di studio, rischiano di produrre effetti depressivi di medio e lungo periodo, in aggiunta alle difficoltà immediate di operatori e istituzioni culturali, che hanno visto i propri budget ridursi drammaticamente nel corso di questo 2020.

Senza mezzi termini, il New York Times ha parlato di una “Great Cultural Depression”, osservando che la disoccupazione nelle arti ha inciso molto più in profondità che nella ristorazione e in altre industrie pur duramente colpite: limitandosi al solo caso statunitense, i dati dell’occupazione a settembre mostrano che il 52% degli attori, il 55% dei ballerini e il 27% dei musicisti risultano “out of work”, mentre nello stesso periodo risultano disoccupati il 27% dei camerieri, il 19% dei cuochi, il 13% degli addetti alle vendite al dettaglio.

Pur consapevoli delle limitazioni di una comunicazione esclusivamente virtuale, molti attori che operano sul palcoscenico culturale hanno decisamente imboccato la strada di realizzare iniziative online per continuare la propria attività di promozione e diffusione e mantenere i contatti con i propri utenti bloccati dai provvedimenti di lockdown: utilizzando, in particolare, piattaforme come Facebook per incontri e convegni; oppure arricchendo la rete di contenuti di approfondimento, narrazioni, materiali illustrativi, che hanno decretato il grande successo riscontrato in questi mesi da pratiche di storytelling e public history.

New Year's Eve 1968-1969
Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum
fonte: Smithsonian

Bisogna accogliere con soddisfazione questo nuovo “dinamismo digitale”; ma bisogna essere altrettanto consapevoli che la sfida digitale si vince solo riconoscendo la profonda discontinuità nei diversi contesti dell’agire umano indotta dallo sviluppo e dalla diffusione delle tecnologie digitali; ripensando l’intera filiera di produzione, trasmissione, fruizione di beni e servizi; garantendo la migrazione dei grandi giacimenti documentali e informativi esistenti dentro questo nuovo contesto, in forme adeguate a media di pubblicazione e pratiche di lavoro radicalmente nuovi.

Con riferimento al campo della gestione di patrimoni culturali di diversa natura per un lungo periodo di tempo (che in Italia possiamo datare a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso fino al primo decennio di questo) l’adozione di soluzioni di Information Technology e, poi, di Information & Communication Technology si è configurato in forma “strumentale” rispetto alle specifiche pratiche disciplinari, replicando di conseguenza le separazioni dei diversi ambiti: ai software era chiesto di “coadiuvare” gli specialisti della materia a fare meglio o in maniera più efficiente il proprio lavoro; in questa prospettiva, l’obiettivo restava comunque realizzare quei prodotti (cataloghi, inventari) normalmente utilizzati dagli operatori del settore; ed eventualmente muovere verso un accesso unificato a questi strumenti (come per tempo hanno fatto le biblioteche con SBN).

La transizione digitale sposta questa asticella funzionale: l’accesso diretto al patrimonio apre quei contenuti alla fruizione di “pubblici” differenti, che pongono domande “inattese”; il corredo informativo di cui è necessario dotare questi oggetti deve, quindi, essere in grado di documentare i diversi contesti entro cui quella documentazione è ora disponibile, nonché le modalità e le forme di utilizzo

Un archivio digitale, in sintesi, non è una copia speculare dell’archivio analogico; non può esserlo, perché la semplice conversione digitale comporta inevitabilmente una semplificazione del suo contenuto informativo, ma anche perché, allo stesso tempo, es-posto fuori dal proprio settore di provenienza, esso acquisisce nuovi possibili usi e nuovi fruitori. Parlando in termini generali, non si tratta solo di compiere una scelta tecnologica, ma è necessario per i diversi attori affrontare l’esigenza di elaborare una “politica culturale” adeguata al nuovo contesto, dentro il quale essa deve essere agita.

New Year's Eve 1968-1969
Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum

fonte: Smithsonian

La disponibilità di queste risorse in un ambiente “radically open, egalitarian and decentralised” come il Web (la definizione è di Tim Berners-Lee, che da tempo denuncia con forza anche i “rischi” di chiusura, ai quali il Web è esposto oggi) amplifica le possibilità di reciproco arricchimento, grazie all’accesso a singole porzioni informative provenienti da una pluralità di fonti, e di sfruttamento delle singole “tracce” documentali in contesti multidisciplinari. In ambito documentale, l’orizzonte operativo di questa cooperazione è identificato in via prioritaria da due framework applicativi, LOD (Linked Open Data) e IIIF (International Image Interoperability Framework), che favoriscono le condizioni di una possibile evoluzione del Web da semplice piattaforma di pubblicazione di contenuti a strumento di condivisione, scambio e lavoro, in grado di alimentare reti di conoscenza decentrate e autorevoli. Non si tratta di adottare nuovi standard, alternativi alle “normative” in cui si riconoscono le diverse comunità professionali: LOD e IIIF definiscono, piuttosto, regole e sintassi di interoperabilità di contenuti e informazioni sul Web, ma restano del tutto “indifferenti” alle diverse specificità disciplinari, favorendone per tale via l’integrazione.

Questi sviluppi sono però condizionati dalle modalità di distribuzione e riuso scelte dai fornitori di contenuti. Le ragioni di movimenti a favore dell’utilizzo di licenze aperte di riutilizzo dei dati e della libera circolazione delle immagini muovono appunto dal riconoscimento delle grandi opportunità per la ricerca e la conoscenza connesse all’utilizzo di queste tecnologie, ma trovano ancora forti e diffuse resistenze. Non vanno certo trascurate le ragionevoli preoccupazioni di chi teme che in questo modo si possano alimentare quelle rendite monopolistiche, basate sul controllo dei dati degli utenti, sulle quali prosperano i grandi giganti del Web.

Non v’è dubbio, però, che l’unico reale antidoto a queste strozzature monopolistiche sia rappresentato dalla possibilità che una pluralità di soggetti, anche piccoli, possa affermare una propria presenza autonoma su questo mercato; e tale presenza può crescere solo assicurando la maggiore diffusione del proprio specifico patrimonio di conoscenza e contenuti, favorendone la circolazione e il riuso. L’esperienza di quest’ultimo decennio ha mostrato che limitazioni dell’accesso ai contenuti, magari finalizzate ad improbabili usi commerciali dei materiali digitali, si sono spesso rivelate inefficaci (in Italia, basta ricordare il recente fallimento della joint-venture Alinari-Sole 24 Ore). All’opposto, è invece emersa la grande vitalità di numerosissime esperienze internazionali (dalla New York Public Library al Rijksmuseum e al British Museum) nel favorire la condivisione dei propri patrimoni informativi e iconografici in pubblico dominio.


Questo testo è una parziale rielaborazione di quello presentato al workshop “Narrare con l’archivio”, organizzato dalla Fondazione Magistretti, in collaborazione con MEET Digital Cultural Center, il 19 novembre di quest’anno, in occasione del centenario della nascita di Vico Magistretti (https://archivio.vicomagistretti.it/magistretti/page/narrare-l-archivio)

Le immagini utilizzate in questa pagina provengono da “Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum” e fanno parte di una selezione predisposta dallo Smithsonian per il nuovo anno, “Happy New Year!” (ringrazio Antonella Pagliarulo per la segnalazione)