Anija. La nave

Ringraziando il regista, riceviamo e volentieri pubblichiamo le sue preziose note di regia sul film in sala in questi giorni
di 8 Marzo 2013 2

La mia nave si chiamava “Legend”.

Nessuno nell’Albania comunista avrebbe mai creduto che un giorno si sarebbe avverata la profezia del personaggio di una barzelletta che circolava sottovoce, il quale raccontava che, quando si fossero aperti i confini, sarebbe salito su un albero per non essere travolto dalla folla in fuga.

Nel 1991 in mezzo a quella folla mi sono trovato all’improvviso anch’io, senza che mai prima mi fosse passato per la testa di rischiare di fuggire dall’Albania. Due anni prima, quando ero ancora uno studente universitario a Tirana, ci aveva provato uno dei miei migliori amici, studente con me, cercando di attraversare a nuoto il lago di Scutari per la costa Jugoslava. Gli era andata bene: l’avevano preso. Ai pochi altri che avevano provato a varcare il confine, sparavano a vista. Gli era andata ancora meglio nel processo, dove gli riconobbero l’infermità mentale, scarcerandolo. La pena prevista per il tentativo di fuga era dai 15 anni in su.

“Anche tu?” Erano le sue parole piene di gioia e meraviglia quando ci trovammo la sera del 7 marzo 1991 sulla banchina del porto di Brindisi. Eravamo partiti per Durazzo nello stesso modo, seguendo quello strano passaparola che ci diceva che il porto era aperto, con solo i nostri vestiti addosso, senza avere avuto il tempo di avvisare nessuno, nemmeno i nostri genitori. Eravamo saliti sulla stessa nave assalita al porto, un vecchio mercantile arrugginito di nome “Legend” carico di carbone e di 5000 persone. Durante le ore di attesa prima della partenza e durante la traversata avevo incontrato su quella nave diversi amici e amiche che, come me, mai mi sarei immaginato avrebbero rischiato di fuggire così spericolatamente dall’Albania. Ci abbracciavamo. Anche tu?

il trailer del documentario

Negli anni a seguire le immagini di quella fuga e quella folla del marzo 1991 si sarebbero lentamente amalgamate nell’immaginario e nel ricordo collettivo con altre fughe più imponenti. A partire dell’esodo ancora più grande dell’agosto dello stesso anno, con la sua nave simbolo, la Vlora, stracarica di 20.000 persone. L’unica nave della flotta albanese a fregiarsi della medaglia “Eroina del Lavoro Socialista” solitamente assegnata alle persone, diventata amaramente il manifesto del crollo dell’Albania comunista. E qualche anno dopo, nel 1997, la fuga di centinaia di navi dall’Albania in fiamme dopo il crollo delle piramidi finanziarie. Anche questo terzo esodo avrebbe avuto la sua nave simbolo: si chiamava Kater i Rades e colò a picco dopo la collisione con la corvetta di pattugliamento Sibilla.

E il sole rispetterà ogni volto sul ponte della nave”. Questo verso dalla canzone di Bob Dylan “When the ship comes in” che ora fa da colonna sonora a un momento del documentario, è stato affisso per mesi sulla mia scrivania durante il lavoro di ricerca, accanto alla foto ingrandita di una folla sulla nave: migliaia di visi irriconoscibili e anonimi. Un blow-up. La ricerca di volti nella folla delle fotografie e immagini era cominciata mesi prima attraverso il giornale degli albanesi in Italia “Bota shqiptare – Il mondo albanese” che aveva da anni una sua rubrica “Anch’io c’ero sulla nave”. Attraverso un’altra lunga ricerca di personaggi all’interno delle fotografie trovai Majlinda, fotografata sulla banchina di Brindisi appena scesa dalle nave. Aveva 13 anni, ora fa il medico a Milano. Tra il materiale televisivo preselezionato avevo messo da parte l’intervista sul porto di Brindisi, accanto alla sua nave, ad un vispo ragazzo albanese che già nel 1991 parlava un ottimo italiano. Lo trovai… su Facebook! Viveva a Rovigo. E così uno ad uno, le facce di quella folla le trovai in tutta Italia. Altri in Albania, dove sono tornati a vivere.

“E il sole rispetterà ogni volto sul ponte della nave”. Questo verso dalla canzone di Bob Dylan “When the ship comes in” che ora fa da colonna sonora a un momento del documentario, è stato affisso per mesi sulla mia scrivania durante il lavoro di ricerca, accanto alla foto ingrandita di una folla sulla nave: migliaia di visi irriconoscibili e anonimi. Un blow-up.

In parallelo, la ricerca negli archivi televisivi e cinematografici in Italia, Albania, Francia, Inghilterra, aveva portato alla luce centinaia di ore inedite di riprese: è in uno dei luoghi più inaspettati che trovai la scena inedita dell’arrembaggio della nave Vlora al porto di Durazzo. Incredulo, più volte la vedevo e più volte scoprivo dettagli che meritavano di essere ingranditi per scoprire al suo interno tante storie singole, come i volti nella folla.

Se gli italiani sono soliti chiedere ad un albanese appena incontrato “Come ti trovi in Italia?”, gli albanesi tra di loro rompono il ghiaccio chiedendo “Come sei arrivato in Italia?”. C’è un certo orgoglio quando la risposta è “Sono arrivato con le navi dell’esodo”. La domanda che segue è di rito. “Con quale nave?” Che sia Legend, Vlora, Kallmi, Lirija, Skenderbeu, Kavaja, Drashovica, Kater i Rades o altra non c’è occasione che l’interlocutore, se non è stato sulla tua stessa nave, non abbia avuto un fratello, un cugino, un parente, un vicino di casa su quella nave. Come se si rivendicasse un’appartenenza collettiva, addirittura nazionale, alle navi dell’esodo, all’arrembaggio, all’attraversamento del mare, al viaggio. Poche ore prima che diventassero ‘immigrati.’
Quando eravamo, ancora, fuggiaschi.