Nel 2007 Piero Barucci, in un saggio pubblicato per l’Istituto italiano per gli studi filosofici (Mezzogiorno e intermediazione “impropria”, Napoli 2007), salutava con soddisfazione la ripresa del dibattito sul Mezzogiorno e la rinnovata consapevolezza, che stava facendosi strada dopo anni di oblio e di negazione, della persistenza di una irrisolta “questione meridionale”, intesa come strutturale differenziale di sviluppo, quantitativo e qualitativo, tra le due aree del paese, in grado per la vastità dell’area interessata di condizionare la crescita economica della nazione nel suo complesso e, segnatamente, anche delle sue sezioni territoriali capaci di maggiore dinamismo.
Oggi, a quasi dieci anni di distanza dal contributo di Barucci e dopo una devastante crisi economica internazionale, di fronte al perdurante “inciampo” dell’Italia ad imboccare un sentiero di crescita in linea almeno con i pur balbettanti ritmi ai quali hanno ripreso a muoversi gli altri paesi europei, la centralità di questo dibattito sembra decisamente confermata. In quanto, proprio all’interno del più generale spazio economico europeo, regolato da un sistema di vincoli e organismi sovranazionali, l’esistenza di un’area di così vaste dimensioni (grande quanto la Grecia, ma con il doppio della popolazione residente), ancorata ad una crisi produttiva, demografica e sociale che appare strutturale, rappresenta un fattore di freno e di rischio per il paese e, di fronte al fallimento delle politiche di convergenza, uno degli ostacoli della stessa costruzione europea. Non è un caso, infatti, che la Svimez nel suo ultimo Rapporto (tutti i materiali sono disponibili qui) denuncia come gli anni della recessione innescata dalla crisi dei mutui subprime hanno lasciato “un Paese ancor più diviso e diseguale”, in cui all’arretramento generale delle regioni meridionali corrispondono risultati certamente non positivi dell’Italia nel suo complesso. Tra il 2001 e il 2014 il valore negativo del tasso di crescita cumulato nel Mezzogiorno (-9,4%, inferiore anche a quello della Grecia che si è fermato a -1,7%) determina un arretramento anche del dato nazionale, che segna un valore negativo per l’1,1%; ma nello stesso periodo le sole regioni del Centro-Nord non sono andate oltre un incremento cumulato dell’1,5%, contro il 15,7% in Germania, il 21,4% in Spagna, il 16,3% in Francia.
La Cassa per il Mezzogiorno, costituita nell’agosto del 1950 sulla base di un disegno di legge di iniziativa governativa presentato da Alcide De Gasperi nel marzo di quell’anno è stata uno dei protagonisti della breve “stagione della speranza” per il Sud nella seconda metà del secolo scorso. Tra il 1950 e la fine degli anni Settanta il differenziale di sviluppo tra le due aree del paese si è ridotto, portando il Pil pro capite del Mezzogiorno dal 53% di quello del Centro-Nord fino al 60,5% nel 1973: nel ventennio successivo, però, questa percentuale è crollata al 55,6% (1995), toccando alla fine del 2014 il punto più basso degli ultimi 15 anni al 53,7%.
Con il progetto Aset l’ACS rende disponibile online lo sterminato archivio della Cassa, le serie delle delibere e dei bilanci digitalizzati, una library di volumi e di filmati sull’intervento straordinario
Alla conoscenza della storia e dell’eredità della Cassa e dell’intervento straordinario è finalizzato il progetto ASET, Archivio dello sviluppo economico territoriale, realizzato dalla Svimez e dall’Archivio centrale dello Stato su finanziamento dell’Agenzia per la coesione territoriale nell’ambito del PON Governance e Assistenza Tecnica 2007-2013. Sulle premesse e le finalità del progetto si possono leggere gli atti del seminario di studi promosso dalla Svimez e dall’Archivio storico della Presidenza della Repubblica nell’aprile 2013 e pubblicati nel numero speciale dei Quaderni Svimez, 44 (2014). I lavori si sono conclusi alla fine dello scorso anno e i risultati sono stati presentati nel corso di un’intensa giornata di studio lo scorso 17 marzo. Fulcro del progetto è stato il recupero dello sterminato archivio della Cassa, oggetto di un articolato intervento archivistico, che ha previsto la redazione dell’inventario, l’acquisizione digitale delle serie dei Verbali e delle delibere del Consiglio di Amministrazione e dei bilanci di esercizio di Casmez e Agensud, il recupero delle banche dati sugli interventi della Cassa e la pubblicazione di tutti questi materiali su un sito web dedicato, http://aset.acs.beniculturali.it/, realizzato da Regesta.exe, sul quale sono anche disponibili 100 volumi digitalizzati provenienti dalla biblioteca tecnica della Cassa, 37 documentari commissionati dalla Cassa durante tutto l’arco della sua attività, le videointerviste realizzate dall’IRPA (Istituto di ricerche sulla Pubblica Amministrazione) ad alcuni dei protagonisti dell’intervento pubblico, i documenti in copia provenienti dall’archivio della International Bank for Reconstruction and Development (IBRD). Ma questo importante lavoro sulle fonti è stato accompagnato da una parallela attività di studio e ricerca, alla quale ha partecipato anche il Dipartimento di economia della Seconda Università di Napoli, che ha portato alla pubblicazione di due volumi per l’editore Il Mulino: La convergenza possibile. Strategie e strumenti della Cassa per il Mezzogiorno nel secondo Novecento, a cura di Emanuele Felice, Amedeo Lepore e Stefano Palermo, e La dinamica economica del Mezzogiorno. Dal secondo dopoguerra alla conclusione dell’intervento straordinario, a cura della Svimez.
Proprio a quest’ultimo volume è stata dedicato lo scorso 12 maggio a Napoli un incontro di presentazione organizzato da Fondazione Banco di Napoli, Svimez e ACS (sul sito dell’Associazione si può consultare il programma dell’incontro e l’indice del volume nonché un resoconto e la registrazione video integrale degli interventi).
Svimez, proseguendo la tradizione del meridionalismo classico, attribuisce il ritardo del Mezzogiorno a ragioni “storiche”, che risalgono fino alle modalità del “compromesso unitario” del 1860 e alle scelte compiute successivamente nella costruzione del mercato nazionale (in materia fiscale, monetaria, industriale), unificando due segmenti territoriali già precedentemente caratterizzati da livelli differenti di reddito e struttura produttiva: colpa dell’uomo e non tragica eredità immutabile, quel ritardo, come scrivono Riccardo Padovani e Giuseppe Provenzano, non è “un destino segnato dalla storia” e, quindi, non può essere considerato “irreversibile” (p. 81). La progressiva formazione di una legislazione “straordinaria” per il Mezzogiorno, a partire dai primi anni del secolo scorso, trova il suo più coerente compimento nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, accompagnando gli anni della crescita e della modernazzazione italiane, culminati nel boom economico a cavallo degli anni Sessanta. In questo contesto, contrassegnato dalla felice concorrenza di una serie di fattori favorevoli a livello nazionale e internazionale, si inserisce l’opera della Cassa, che , come sottolinea il presidente della Svimez, Adriano Giannola, nella sua introduzione al volume, ha rappresentato “un modello peculiare e virtuoso di Agenzia”.
Sulla periodizzazione generale si deve registrare una sostanziale concordanza tra gli studiosi. La stagione d’oro dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e della riduzione del divario si esaurisce, come si è detto, nelle turbolenze degli anni Settanta (crescita dei costi delle materie prime, abolizione della parità oro-dollaro, primo e secondo shock petrolifero), sulle quali si chiude anche il lungo ciclo dello sviluppo internazionale post-bellico. La crisi della Cassa sfocia nella sua liquidazione nel 1984 e, poi, nella breve e poco gloriosa esperienza di Agensud: la soppressione dell’Agenzia nel 1993 e il successivo accordo Pagliarini-Van Miert del 1994 segnano la fine definitiva dell’intervento straordinario. Più animato e plurale è invece il dibattito sulle ragioni del’esaurimento dell’esperienza della Cassa: sicuramente, il mutato ciclo economico, che dopo di allora si caratterizza per brusche oscillazioni molto più ravvicinate, ha profondamente inciso su questa crisi; ma ad essa ha contribuito una serie di fattori, non solo economici, che sono andati coagulandosi in quegli anni, dalla moltiplicazione delle competenze determinato dalla nascita delle regioni, alla progressiva scomparsa della prima generazione di “tecnici”, che nell’opinione di molti ha lasciato crescenti spazi d’azione alle istanze politiche, inducendo una progressiva perdita di qualità e di incidenza degli interventi realizzati.
La discussione sulle cause del declino intreccia necessariamente quella sui risultati raggiunti. L’ampliamento del divario che si è registrato a seguito dell’esaurimento del flusso di risorse pubbliche verso le regioni meridionali a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso richiama, infatti, non solo la gravità della crisi che ha colpito il Mezzogiorno, ma anche la difficoltà per la struttura produttiva territoriale di rispondere ai fattori di crisi e, quindi, in ultima istanza sulla qualità (e sulla “robustezza”) delle trasformazioni indotte da quarant’anni di intervento straordinario. Il ricco corredo di evidenze statistiche proposte dai due volumi realizzati all’interno del progetto Aset segnalano non solo la brusca interruzione del processo di convergenza, ma anche la successiva profonda contrazione degli investimenti fissi lordi industriali nell’area, la cui incidenza sul totale nazionale cala progressivamente dal 30% raggiunto nel decessio Sessanta al 20% nel primo decennio di questo secolo, per tornare con la crisi attuale al livello degli anni di esordio dell’intervento straordinario, poco sopra il 15%.
La realtà raccontata dal quarto rapporto su Le imprese industriali del Mezzogiorno, realizzato dalla Fondazione Ugo La Malfa in collaborazione con l’Area Studi di Mediobanca e relativo agli anni 2008-2013, non lascia spazio a illusioni. Il Rapporto censisce a fine 2012 meno di 400 imprese di medie e grandi dimensioni che hanno la loro principale sede operativa nelle regioni meridionali, con un’occupazione industriale in deciso calo nel periodo di analisi (da 74 mila a 68 mila dipendenti per le imprese maggiori, da 43 a 33 mila per le imprese di medie dimensioni). Si tratta di numeri veramente esigui, che testimoniano come il disimpegno della grande impresa pubblica nel Mezzogiorno non sia stato assolutamente compensato dall’autonomo dinamismo del tessuto di imprese industriali che il sostegno pubblico dei decenni precedenti aveva contribuito a consolidare.
Queste considerazioni non possono, a me sembra, automaticamente tradursi in un giudizio critico della politica meridionalista del primo trentennio repubblicano, come se fosse possibile sostenere (e troppo spesso lo si è sostenuto) che la semplice assenza di un impegno finanziario pubblico a favore del Mezzogiorno avrebbe potuto “liberare” quelle risorse necessarie ad attivare una “crescita endogena” dell’economia meridionale. Semmai, i numeri prima richiamati e quelli citati in avvio rimandano alle responsabilità storiche che nella persistenza del divario tra Nord e Sud d’Italia devono annettersi proprio alla latitanza e alla debolezza dell’iniziativa delle forze imprenditoriali e finanziarie nazionali e locali; richiamano gli studiosi ad un ulteriore necessario impegno per individuare e comprendere tutti i fattori che la “questione meridionale” hanno concorso a determinare.
In questa ricerca, che è in parte ancora da scrivere, la documentazione che ora il progetto Aset ha reso disponibile può offrire un importante supporto. Attraverso il portale, infatti, si può accedere ad una serie di materiali analitici, in grado di ampliare e specificare il quadro di sintesi, già largamente delineato dalla letteratura meridionalistica, con la conoscenza di dettaglio e l’analisi dei singoli interventi operati dalla Cassa e dall’Agensud nel corso degli anni. Si tratta, in particolare, di due fonti primarie: le delibere del consiglio di amministrazione, acquisite digitalmente e schedate in maniera analitica, con l’individuazione del progetto finanziato e il rimando ai fascicoli della documentazione istruttoria; i diversi database gestionali dei progetti, che sono stati convertiti dalle originali applicazioni legacy per mainframe, per rendere quei dati integralmente riutilizzabili con nuovi strumenti tecnologici.
Tutti i dati che alimentano le diverse sezioni del portale sono stati integralmente rilasciati in formato riusabile e con licenza d’uso aperta: una scelta per garantire la più ampia visibilità e la massima capacità di riutilizzo dei materiali e delle informazioni prodotte
Per consentire agli utenti la possibilità di navigare in maniera integrata le diverse tabelle dalle informazioni contenute in quei database è stato prodotto un repository Linked Data e progettata una scheda di sintesi che riporta i dati sui beneficiari, l’oggetto, la localizzazione e l’esito degli interventi, gli importi finanziati. Tutti i dati che alimentano le diverse sezioni del portale sono stati integralmente rilasciati in formato riusabile e con licenza d’uso aperta: si tratta di 56 dataset esposti in accordo con il formato originale dei diversi sistemi di provenienza nella sezione Open Data. Questa scelta non risponde solo all’esigenza di ottemperare ad una disposizione di legge in tema di disponibilità dei dati prodotti dal settore pubblico (PSI, Public Sector Information) o ad una generica istanza di trasparenza, ma vuole essere un contributo concreto volto a garantire la più ampia visibilità e la massima capacità di riorganizzazione e riutilizzo dei materiali e delle informazioni prodotte, anche da parte di utenti esterni in contesti differenti e sulla base di specifiche esigenze conoscitive.
Anche attraverso questo innovativo approccio alla documentazione l’Archivio centrale dello Stato conferma la propria naturale vocazione a svolgere un ruolo centrale nella conservazione delle fonti e nello studio dell’evoluzione dello Stato unitario. Per rimanere ai temi oggetto di questo contributo, l’auspicio è che l’Acs possa proseguire l’impegno archivistico e progettuale messo in campo con questo intervento e aggregare all’interno del quadro disegnato per i materiali della Cassa per il Mezzogiorno la documentazione prodotta da altri soggetti e istituzioni che sono stati protagonisti delle vicende economiche del Mezzogiorno e dell’Italia nella seconda metà del secolo scorso. Si tratta di un filone documentario sul quale l’Acs è già significativamente presente: a cominciare dagli archivi dell’Iri, che sono stati oggetto di un pioneristico progetto di digitalizzazione avviato nella prima metà degli anni Novanta e che ora sono disponibili sulla piattaforma archivistica dell’Istituto.
Sul versante della politica meridionalistica e dello sviluppo economico del Mezzogiorno l’Iri ha giocato, al pari della Cassa, un ruolo di primissimo piano, nella sua duplice funzione di speciale holding industriale pubblica e di strumento sussidiario dell’amministrazione statale in tema di politica economica: come è stato già ampiamente documentato dalla letteratura sull’argomento, all’interno degli uffici di via Veneto prende forma una riflessione originale sul tema dello sviluppo del Mezzogiorno e sugli strumenti di intervento nell’economica meridionale, tanto che si è parlato di impegno meridionalista dell’Iri già negli anni Trenta. Nelle mutate condizioni che vanno maturando negli anni conclusivi della guerra e in quelli appena successivi questa elaborazione viene rapidamente aggiornata. In una nota riservata dei primi mesi del 1949, predisposta in vista di una riunione convocata dal vice presidente del consiglio Giovanni Porzio su richiesta dei deputati e dei senatori napoletani, con la partecipazione del ministro dell’Industria Ivan Matteo Lombardo, viene prefigurata l’esigenza di costituire “uno speciale Ente finanziario per il Mezzogiorno” (questa nota si trova in un fascicolo dell’Archivio “Pratiche degli uffici”, fondo “Affari generali e organi deliberanti”, serie “Ufficio di Napoli 1951”, dal titolo Appunti e note varie sul Mezzogiorno). A questo nuovo organismo avrebbero dovuto essere assegnato un esplicito compito di sostegno allo sviluppo e al consolidamento della struttura produttiva meridionale, con una particolare attenzione al debole settore industriale, anticipando in tal modo le ragioni che hanno motivato il passaggio dalla prima alla seconda fase di azione della Cassa alla fine degli anni Cinquanta. Scopo dell’istituto, si legge infatti nel documento, è di assicurare “finanziamenti, sia attraverso partecipazioni azionarie (di maggioranza o di minoranza a seconda dei casi e cioè in relazione alla possibilità o meno di ottenere il concorso dell’iniziativa privata) e sia attraverso mutui diretti, garanzia per mutui di terzi e qualsiasi altro tipo di operazioni di credito, di nuove iniziative industriali ed agricole nell’Italia Meridionale” (ndr: sottolineature presenti nell’originale).
L’impegno meridionalista dell’Iri non si alimenta di una generica vocazione solidaristica, né tantomeno è motivato dalla pur significativa presenza dell’istituto nel Mezzogiorno (in particolare nell’area napoletana, con gli insediamenti industriali dell’Ilva a Bagnoli, della Navalmeccanica, della Sme). Tale nucleo industriale, per quanto di vitale importanza per la città di Napoli rappresentava un problema tutto sommato alquanto limitato in relazione ai compiti gravosi di riorganizzazione, sostegno e rilancio dell’apparato industriale italiano che erano stati assegnati all’Iri e al conseguente sforzo finanziario pubblico, che considerata la distribuzione territoriale dell’industria italiana era indirizzato principalmente verso le regioni settentrionali. La centralità che la questione meridionale assume per l’Iri già nei primi anni della sua vita scaturisce piuttosto dall’analisi che il gruppo di tecnici raccolti da Alberto Beneduce condivide sulle ragioni delle debolezze del sistema economico italiano. L’esigenza di ampliare la base produttiva nazionale rappresenta una delle condizioni per porre l’economia italiana su basi meno fragili, garantire un più stabile e diffuso finanziamento alle imprese, stabilizzarne le prospettive di mercato. Nelle nuove condizioni di apertura del commercio internazionale e di competizione tra sistemi nazionali, dopo gli anni della chiusura autarchica, il “futuro industriale” del Mezzogiorno è funzionale a sostenere la crescita economica dell’Italia nel suo complesso: non si dà l’una senza l’altro.
Così come solo un andamento sostenuto dell’economia nazionale nel suo complesso può garantire quelle risorse aggiuntive necessarie ad erodere il differenziale di sviluppo tra le due sezioni del paese. L’esperienza passata dimostra che senza uno sforzo straordinario quel divario non può essere ridotto, ma l’efficacia dei risultati non è determinata solo dall’entità della spesa. Le evidenze statistiche, discusse nel saggio di E.Felice e A.Pomella pubblicato nel volume La convergenza possibile, confermano che l’aumento delle risorse impegnate “non serve a migliorare i risultati dell’intervento straordinario, nemmeno da un punto meramente attuativo” (p. 66).
Non è quindi l’entità degli impegni, né l’efficienza della spesa, a poter garantire le condizioni per una stabile inversione di marcia dell’economia meridionale; ad evitare il rischio che quel flusso di risorse finanziarie si limiti ad un mero sostegno al reddito, destinato ad essere comunque insufficiente e sempre necessario. Naturalmente, la ricetta industrialista del dopoguerra non è assolutamente riproponibile nello scenario globalizzato del nuovo secolo. Probabilmente, la ricostruzione di una strategia per il Mezzogiorno dovrà, invece, partire da due elementi, che caratterizzano le sfide dell’Italia (e dell’Europa) di oggi: la geografia, per il posto che il Paese (e, in particolare, la sua parte meridionale) ha nel Mediterraneo delle migrazioni; la demografia, in quanto il drastico calo delle nascite e il continuo invecchiamento della popolazione concorrono ad intaccare le residue autonome capacità di riscatto del Mezzogiorno.