La migrazione digitale

di 10 Gennaio 2010 0

Pubblichiamo il paragrafo finale di un articolo apparso a firma di Giovanni Bruno sul dossier “Gli archivi fanno sistema”, a cura di Brunella Argelli,  pubblicato sul numero 3 del 2009 della “Rivista IBC”.

Is Google Making us Stupid?, si chiede sul numero di luglio-agosto 2008 di “The Atlantic” Nicholas Carr, notando come l’affermazione della rete come medium universale (a un tempo, radio, TV, orologio, giornale, telefono…) incide su tutto l’ambiente circostante e, riducendo lo spazio personale del “deep reading”, anche sul modo di pensare: “It is our own intelligence that flattens into artificial intelligence” (leggi l’intero articolo). Può darsi che Carr dipinga uno scenario a tinte eccessivamente fosche, ma è indubbio che la migrazione digitale sta innanzitutto cambiando strumenti e finalità della mediazione culturale. “Le livre en tant qu’objet ne risque guère de disparaître dans un avenir prévisible”, ci rassicura lo storico delle religioni Milad Doueihi: “Mais il est clair aussi qu’il n’est plus le premier ni le seul objet adapté à la production du savoir, à son échange et à sa transmission”.

Al di là delle parole d’ordine che dominano le analisi dell’attuale panorama dello sviluppo di Internet (blog e web 2.0, social network, web semantico) appare sempre più evidente che l’indicatore principale dei cambiamenti in corso, forse il carburante stesso di questo cambiamento, risieda su due dinamiche tecnologiche e produttive convergenti: da un lato crescono in misura esponenziale i contenuti fruibili sul web nelle modalità più diverse (broadcast, push, on demand, peer to peer) e sui più diversi devices; da un altro, si spostano sulla rete molte funzioni operative: il browser diventa uno strumento di lavoro che sostituisce la scrivania del proprio personal computer, la rete amplia le capacità di memorizzazione e di calcolo del nostro hard disk e del nostro processore. Si tratta di processi che muovono interessi rilevanti: si pensi all’industria dell’intrattenimento, dalla musica al cinema e alla televisione, e a quella connessa della pubblicità. Processi ormai irreversibili, in grado di incidere sui processi produttivi così come sulla vita di ogni giorno, come la virtualizzazione dell’intermediazione finanziaria e delle stesse pratiche bancarie sta determinando nelle nostre abitudini di utenti.

Ma in misura ancora più incisiva cambiano i modelli di organizzazione del lavoro, con l’accelerazione continua di contenuti disponibili in libero accesso, che con una certa enfasi è stato definito “the OA Tsunami”. Nel 2007 il “New York Times” chiude la non felice esperienza di e-commerce della sua edizione on-line e decide di dare accesso gratuito ai propri contenuti, mentre anche in Italia si aprono gli archivi dei grandi quotidiani nazionali. La competizione sul mercato Internet sembra progressivamente concentrarsi intorno al paradigma radicale del “costo zero”. “Free worked, and worked brilliantly”, ha scritto di recente Chris Anderson (Free, New York, Hyperion, 2009). La capacità di raggiungere, attraverso la rete, un’utenza altrimenti preclusa e fortemente segmentata, “crea” occasioni di mercato delle risorse digitali: con il loro riutilizzo per la produzione di nuovi contenuti e prodotti; con l’erogazione di servizi “reali” a valore aggiunto; con la pubblicità, infine. È la ragione del successo commerciale dei grandi progetti di free software, da Linux a Google, la strada imboccata dall’industria della musica e dei videogame, il modello di funzionamento del mercato dell’informazione.

Per aprire le proprie risorse digitali a questo mercato non è però possibile limitarsi alla semplice pubblicazione dei contenuti: “Search and access over a set of resources, while important to any digital library, are not sufficient” (leggi l’articolo). La visibilità dei dati, interrogabili da agenti esterni attraverso protocolli standard di comunicazione come OAI-PMH, rappresenta uno dei requisiti di partenza del progetto dell’IBC. Con lo sviluppo dei lavori sono però venute maturando due ulteriori esigenze: in primo luogo, rendere la base informativa interamente accessibile ai motori di ricerca, che rappresentano oggi il primo e il principale canale di accesso alle informazioni su Internet (quasi il 90% del traffico del portale IBC Archivi origina da Google); quindi, consentire una completa riutilizzabilità dei dati e delle funzioni di ricerca e navigazione in altri ambienti: attraverso strumenti di integrazione dinamica con la base dati IBC, per mezzo di autonome applicazioni di pubblicazione di singoli inventari, accedendo ai singoli record XML. Mezzo e non fine, quindi: per assicurare non solo l’emersione dei dati gestiti verso aggregatori o portali; ma soprattutto la disponibilità delle singole risorse digitali per iniziative specifiche (editoriali, tematiche, territoriali). E sostenere per questa strada, in particolare, la presenza e la progettualità sul web di quella rete “reale” di conservatori dei patrimoni che alimentano il sistema IBC Archivi.

Per leggere l’intero dossier clicca qui